VIAGGI | Nicaragua Il volo (perduto) del Quetzal · Avventure nel mondo 2 | 2013 - 31........

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30 - Avventure nel mondo 2 | 2013 .............................................................................. Il volo (perduto) del Quetzal Da un Nicaragua gruppo Ciambellini Testo di Sergio Barbati Foto di Marco Martino e Marcello Ciambellini VIAGGI | Nicaragua Un Nicaragua ammaliante tra vulcani inquieti, laghi sconfinati, gioielli coloniali, foreste nebulari e … cervezas ‘insensatamente gelate’ 01 02 I L QUETZAL Come mi sarebbe apparso, come avrebbe disvelato i suoi irripetibili colori, nell’immobilità silenziosa o in un volo radente contro la volta stillante di rugiada? … Avevo attraversato le travi scricchiolanti della finca badando a non far rumore; guadagnato l’uscio, richiusolo silenziosamente, mi ero ritrovato in un’alba diafana e gelida (già, gelida ai tropici), e bardato nella giacca a vento avevo im- pegnato il sentiero di qualche centinaio di metri (non di più dati gli impegni a venire), sperando nell’apparizione … Avvertivo dentro uno straniamento, co-me un oscuro senso di inquietudine, in quell’universo sterminato di grigio bagliore che lasciava intravedere qua e là figure inconsistenti … Poi improvvisamente … Era lì, immoto in una spirale di nebbia, sul suo inaccessibile posatoio, quasi invisibile tra i licheni pendenti, ma rischiarato da un furtivo raggio di luce che accendeva di riflessi iridescenti l’indimenticabile piumaggio … Un vero e proprio ‘afterglow’ … Mi sorprendeva il fatto che il quetzal (Pharamocrus mocino), uno degli esseri più belli nel mondo degli uccelli, in grado di competere con gli storni metallici africani e con le leggendarie paradisee di Wallace in Nuova Guinea, vivesse in poche aree circoscritte nelle foreste di montagna coperte continuamente dalle nevi, flagellate dalla pioggia e immerse in una foschia capace di smaterializzare ogni viva presenza, con un indice di umidità talmente alto da costituire un ambiente elettivo per muschi, licheni e piante epifite che, crescendo a profusione tra i tronchi dei grandi alberi, creano fantasmagoriche architetture; quasi che la natura, apocalittica e impervia avesse concesso, a quei pochi esemplari di sopravvivere attraverso milioni di anni di spietata selezione delle specie … Gli hidalgos ed i guerrieri al seguito di Cortes, nella sua spedizione nell’impero di Montezuma dovettero ben accantonare (almeno per qualche istante), la loro sete di conquista nell’ammirare, soggiogati, le lunghe piume color smeraldo che ornavano i copricapo dei nobili aztechi e dello stesso imperatore. Il quetzal, anche chiamato Trogone risplendente, appartenente all’ordine dei Trogoniformi ed alla famiglia dei Trogonidi, rappresenta ancora oggi il simbolo del Guatemala (non del Nicaragua, che esibisce come uccello nazionale il motmot), figurando nella bandiera di quel paese e dando anche il nome alla sua divisa monetaria, ma vive, ancorché ridotto a pochi esemplari, in tutte le foreste di montagna dell’America Centrale, a partire dal sud del Messico. Visto dal basso, spiccano il petto ed il ventre con una bella tinta cremisi, ma è la visione dorsale a folgorare, con le copritici alari di un colore verde-smeraldo con riflessi azzurrognoli, quasi ipnotizzanti … ma sto divagando … VIAGGIO – PARTE PRIMA È raro che un viaggio non si imprima nell’immaginario, in qualche modo, ma questo Nicaragua (28.07 – 12.08 2012), ha sortito impressioni così vivide da esercitare una fascinazione quasi invincibile su di me come credo Il Signore della Stella Mattutina era nel mezzo, fra notte e giorno, come un uccello ad ali aperte che attende con l’ala destra splendido di luce, la sinistra nell’oscurità … (David Herbert Lawrence)

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30 - Avventure nel mondo 2 | 2013 .........................................................................................................................................................

NicaraguaIl volo (perduto) del Quetzal Da un Nicaragua gruppo Ciambellini

Testo di Sergio Barbati Foto di Marco Martino e Marcello Ciambellini

VIAGGI | Nicaragua

Un Nicaragua ammaliante tra vulcani inquieti, laghi sconfinati, gioielli coloniali, foreste nebulari e … cervezas ‘insensatamente gelate’

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IL QUETZAL

Come mi sarebbe apparso, come avrebbe disvelato i suoi irripetibili colori, nell’immobilità silenziosa o in un volo radente contro la volta stillante di rugiada? … Avevo attraversato le travi scricchiolanti della finca badando a non far rumore; guadagnato l’uscio, richiusolo silenziosamente, mi ero ritrovato in un’alba diafana e gelida (già, gelida ai tropici), e bardato nella giacca a vento avevo im-pegnato il sentiero di qualche centinaio di metri (non di più dati gli impegni a venire), sperando nell’apparizione … Avvertivo dentro uno straniamento, co-me un oscuro senso di inquietudine, in quell’universo sterminato di grigio bagliore che lasciava intravedere qua e là figure inconsistenti … Poi improvvisamente … Era lì, immoto in una spirale di nebbia, sul suo inaccessibile posatoio, quasi invisibile tra i licheni pendenti, ma rischiarato da un furtivo raggio di luce che accendeva di riflessi iridescenti l’indimenticabile piumaggio … Un vero e proprio ‘afterglow’ … Mi sorprendeva il fatto che il quetzal (Pharamocrus

mocino), uno degli esseri più belli nel mondo degli uccelli, in grado di competere con gli storni metallici africani e con le leggendarie paradisee di Wallace in Nuova Guinea, vivesse in poche aree circoscritte nelle foreste di montagna coperte continuamente dalle nevi, flagellate dalla pioggia e immerse in una foschia capace di smaterializzare ogni viva presenza, con un indice di umidità talmente alto da costituire un ambiente elettivo per muschi, licheni e piante epifite che, crescendo a profusione tra i tronchi dei grandi alberi, creano fantasmagoriche architetture; quasi che la natura, apocalittica e impervia avesse concesso, a quei pochi esemplari di sopravvivere attraverso milioni di anni di spietata selezione delle specie … Gli hidalgos ed i guerrieri al seguito di Cortes, nella sua spedizione nell’impero di Montezuma dovettero ben accantonare (almeno per qualche istante), la loro sete di conquista nell’ammirare, soggiogati, le lunghe piume color smeraldo che ornavano i copricapo dei nobili aztechi e dello stesso imperatore.Il quetzal, anche chiamato Trogone risplendente, appartenente all’ordine dei Trogoniformi ed alla famiglia dei Trogonidi, rappresenta ancora oggi il simbolo del Guatemala (non del Nicaragua,

che esibisce come uccello nazionale il motmot), figurando nella bandiera di quel paese e dando anche il nome alla sua divisa monetaria, ma vive, ancorché ridotto a pochi esemplari, in tutte le foreste di montagna dell’America Centrale, a partire dal sud del Messico. Visto dal basso, spiccano il petto ed il ventre con una bella tinta cremisi, ma è la visione dorsale a folgorare, con le copritici alari di un colore verde-smeraldo con riflessi azzurrognoli, quasi ipnotizzanti … ma sto divagando …

VIAGGIO – PARTE PRIMA

È raro che un viaggio non si imprima nell’immaginario, in qualche modo, ma questo Nicaragua (28.07 – 12.08 2012), ha sortito impressioni così vivide da esercitare una fascinazione quasi invincibile su di me come credo

Il Signore della Stella Mattutina era nel mezzo, fra notte e giorno, come un uccello ad ali aperte che attende con l’ala destra splendido di luce, la sinistra nell’oscurità …

(David Herbert Lawrence)

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01 Esteli- riserva miraflor verso nord02 Granada, Vulcano Mombacho, vista su cratere, Granada e Las Isletas03 El castillo arrivando all’estremo sud

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(ma è quasi una certezza), sugli altri compagni di spedizione.Ci ritroviamo dunque all’aeroporto Leonardo da Vinci, la mattina del 28 luglio dinanzi al banco di Avventure, una piacevole novità per me che non viaggiavo (astinenza coatta), da più di tre anni e che ricordavo di altre agnizioni diretta-mente ai check-in. Cinque in tutto: Marcello (coordinatore), Roberta e Rosanna sorelle, Marco ed il sottoscritto. Con malcelato orgoglio mi ascrivo il merito di aver fatto partire il viaggio, in quanto terzo in ordine di inserzione (Marco essendosi aggregato solo l’ultimo giorno utile, senza che per questo lo stesso venisse prima cancellato dal sito).Marcello aveva preconizzato che l’andata sarebbe stata terribile e infatti ... In puro stile Avventure, la sequenza delle tratte prevedeva: Fiumicino – New York (J.F.K.); J.F.K. - La Guardia; La Guardia – Atlanta; Atlanta – Managua. Nella capitale saremmo arrivati imbambolati per non dire distrutti ma, a bocce ferme, devo riconoscere come molto piacevoli le fugaci ore trascorse nella Grande Mela tra la Fifth Avenue e le vertigini di Timessquare ed il DownTown di Atlanta dove una modernità discreta (grattacielo con ristorante girevole), si contempera senza stridori con la storia (casa di Margaret Mitchell, l’autrice di “Via col vento”). Come viaggiatori di Avventure non potevamo, naturalmente, mancare una notte in aeroporto e questa si è estrinsecata al ‘La Guardia’, insonne e praticamente al gelo ma, in definitiva, eravamo gratificati dal breve incontro con le due città, soprattutto chi come me (e Marco per N.Y.), non vi era mai stato e nemmeno le avesse in programma nell’immediato.Regolati gli orologi, la sera del 29 siamo a Managua, ma per questioni di ordine logistico ci trasferiamo con un taxi, previa contrattazione, a Leon. Nella prima parte del tragitto di circa due ore attraversiamo quella che ci pare l’intermina-bile periferia di Managua ma che invece, a detta del conducente, risulta essere il cuore stesso di una città, lo avremmo scoperto alla fine, fatta di viali chilometrici e priva di centro. Giungiamo affranti verso le ventidue, nell’antica città colo-niale e subito ci mettiamo alla ricerca dell’albergo, la cui individuazione, data la non esaustiva toponomastica delle strade, non risulta affatto facile. Alfine ecco pararsi l’hotel America, di certo non un 5 stelle, dall’aspetto non scintillante e dalle camere scarne nell’arredamento (fatto questo che caratterizzerà l’intero viaggio in un paese privo di infrastrutture turistiche), ma che rivelerà, la mattina dopo un lato fascinoso: il patio. Il patio costituirà un “must” di questa intensa esperienza e ne riceviamo subito un mirabile assaggio nel ristorante che scegliamo proprio per questo (avendone avuto una vellicante visione dalla strada). Avvolto nelle ombre e con una fontana centrale, spesso inducendoci in contemplativi silenzi, allieta la nostra prima cena nicaraguense (ottima a base di grigliata di carne e gallopinto), cena dove peraltro sperimentiamo quella che da subito diventerà un’altra irrinunciabile abitudine: la squisita birra locale, ‘insensatamente helada’

(sic. Marco), e servita in boccali a loro volta usciti da un congelatore, ma ne riparleremo … Guadagnato l’albergo, cadiamo come sassi nelle braccia di Morfeo.Il 30, ci destiamo rinfrancati e dopo un’abbondante colazione nica a base di uova strapazzate e gallo-pinto, consumata di fronte al patio terebrato da raggi di luce equinoziale e contornato di sedie a dondolo coloniali pesanti e molto comode, puntualizziamo il programma della giornata.La mattina viene dedicata alla visita di Leon; la capitale della rivoluzione sandinista, nel suo decadente fulgore coloniale, con le magnifiche chiese e la profusione di centri culturali e gallerie d’arte, ci appare presto ben più degna delle poche ore che siamo costretti a dedicarle. Ci colpisce l’imponente cattedrale: la Basilica de la Asunciòn che ammiriamo si nella sua quarta versione (1747) in stile barocco centroamericano in esterni, ma che purtroppo si rivela inesorabil-mente chiusa; allontanandoci di qualche metro dalla monumentale facciata, ci accontentiamo

di osservarla da lontano: bagliori di cupezza si irradiano sul grande parco che la circonda, silenzioso e in totale abbandono. In un lato dell’altare vi avremmo trovato la tomba di Ruben Darìo, guardata da un leone triste e che reca l’espressione: “Il Nicaragua è fatto per la libertà”.Ma tant’è … Ancora solo dall’esterno, qualche isolato più su, incrociamo con lo sguardo la chiesa più bella: la iglesia de la Recolecciòn (1786), autentico gioiello in barocco messicano con le sue tonalità giallo carico e che in lontananza ci appare fiera, sfarzosa e, non potrebbe es-sere altrimenti, sempre ammantata di una nobile aura decadente. Riusciamo invece ad entrare ne la Iglesia de la Merced (primo settecento), che, in principio non molto vellicante, confrontata con le precedenti, mostra poi un interno ricco di interessanti tarsie con le stazioni della Via Crucis. Il senso di perdita continua ad attanagliarci perché manchiamo anche il Museo-Archivio Ruben Darìo

(ineluttabilmente chiuso anch’esso), mentre riusciamo almeno a lanciare un’occhiata fugace al Museo d’Arte Ortiz Guardian, considerato il più bel museo di arte contemporanea di tutto il Centro-America (ci perdiamo Rubens, Picasso e gli autoctoni Diego Rivera, Fernando Botero etc.). Sic transit … Ci rifacciamo però entrando per qualche minuto nell’Università, che ci sembra piccola e deliziosa. Dopo aver superato un atrio a colonne, guadagnamo il cortile ombreggiato, conformato come un patio oblungo e contornato da un fresco porticato coloniale, dove stazionano studenti rilassati, il tutto severamente osservato dalle erme consunte di austeri docenti ‘pluri-decorati’.Ma se è vero che sono spesso i momenti meno apparentemente significativi, quelli che ci scavano dentro e che ci legano segretamente ad un luogo, è stato il semplice passeggiare nella città, nei suoi viali con le vecchie case dalle spesse mura in adobe e con i tetti colorati, lo sbirciare oltre le porte aperte per scoprire un patio ed i suoi chiaroscuri,

l’attraversare un incrocio osservando le tar-ghe in ceramica, dove i locali con elevata autostima dichiarano le proprie professioni, per scorgere magari un po’ più oltre la gialla sagoma di una chiesa barocca sulla cui facciata incorniciata da palme oscillanti si rapprende la luce dei tropici, allora capiamo che questa antica capitale non la dimenticheremo … Nel pomeriggio dello stesso giorno, inizia la nostra esplorazione della straordinaria natura del Nicaragua, con una visita al complesso vulcanico Las Pilas-El Hoyo, dove spicca il Cerro Negro. Situato ad una ventina di chilometri a nord-e-st di Leon, questo vulcano è tra i più attivi dell’intero Centro America. Alto un po’ meno di settecento metri eruttò per la prima volta nel 1850 e da allora non ha cessato praticamente mai di manifestarsi fin quasi ai nostri giorni. L’ultimo evento del 1999, facendo collassare il cratere principale, aprì altri tre crateri avventizi alla base.

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NicaraguaNicaraguaDopo aver percorso con un ‘busito’, un sentiero

serpeggiante nella giungla, subito al di là di una curva, vediamo ergersi la sua sagoma inquietante, un cono perfetto di cenere nera, incombente sulla silenziosa foresta sottostante … Decidiamo per la scalata che compiamo in meno di due ore su un versante ‘duro’, fatto di detriti scoriacei. Giunti in cima, dopo aver goduto, nel vento impetuoso, di una visione a perdita d’occhio della sconfinata pianura che lo circonda, Roberta, Rosanna e Marcello, scendono ripercorrendo a ritroso il cammino dell’andata, mentre Marco ed io, al seguito di una guida, entriamo nel cratere seguendone il diametro per rimontare dalla parte opposta, al fine di affrontare la discesa sul versante di cenere sciolta. L’attraversamento del cratere lascia il segno: in un paesaggio lunare, tra vapori mefiti-ci che fuoriescono da fenditure striate di giallo sulfureo, procediamo tra onde contorte di magma pietrificato, attoniti dietro la guida che ci indica la parete interna (di cenere), che dovremo risalire (la qual cosa faremo non senza qualche difficoltà, causa il continuo affondare delle gambe nel letto obliquo di piroclastiti sciolte). Ma il bello deve ancora venire: da un po’ di tempo è stato ideato un nuovo metodo per scendere dalle pendici: il ‘surf sul vulcano’, che si attua su scatole di cartone o apposite tavole (sandboard). Noi non le abbiamo e allora la guida, giunti sull’orlo, ci invita ridendo ad affrontare ‘a piedi’ la discesa; detto fatto si lancia, seguita di lì a breve da Marco che con gio-vanilistico impeto (in autentico stile Discovery), si catapulta al seguito. Sono interdetto, (ho una gamba malandata), ma devo decidermi in fretta: il vento diventato feroce potrebbe sbalzarmi oltre il ciglio da un momento all’altro, facendomi perdere l’equilibrio … guardo giù e l’acclività sembra da lì ancora più accentuata di quanto non apparisse dal basso … la vista dei due che mi precedono mi rincuora, sembrano godere … non c’è più tempo: vado. Assicuro, una delle esperienze più divertenti che abbia vissuto nelle mie scalate (e discese); la accelerazione crescente viene stemperata grazie all’azione delle gambe che esercitano un’azione

frenante affondando nella cenere e il fondo sembra non arrivare mai … esaltante!Vieppiù soddisfatto per aver affrontato l’avventura in condizioni fisiche non perfette (ed essendo sopravvissuto), mi premio con una lattina di Toña ghiacciata, che sorseggio sulla strada del ritorno trasognato tra alberi esotici, nella luce calda del pomeriggio inoltrato. In serata poi un altro ristorante … un altro patio … altre birre (Victoria in bottiglie gelate da un litro), a rinfrescare le nostre strozze inaridite nell’ubriacatura da ceneri.Il giorno seguente (trentuno), di buon mattino raggiungiamo con un taxi il terminal dei bus da dove partiamo con destinazione Esteli dove, assunte le relative informazioni, con un pulmino muoviamo verso la Riserva Miraflor.L’Area ‘Protegida Miraflor’ ci fornisce il primo autentico contatto con la natura incontaminata dell’altopiano settentrionale accogliendoci con uno spettacolo di variopinta ed esuberante bellezza tra cascate, orchidee, lembi di foresta nebulare (siamo in quota), piantagioni di caffè ed accoglienti ‘fincas’. In una di queste: la ‘Finca sonda’, troveremo ospitalità per la notte. Il tempo è tiranno (la mattina dopo saremmo ripartiti), e dunque non ci cimentiamo come avremmo potuto in una serie di corroboranti attività quali preparare tortillas, tostare il caffè, dare una mano nel mungere le mucche (immagino Marco ...); piuttosto optiamo per una escursione nella natura rigogliosa che ci regalerà, tra l’altro, il primo di una lunga serie di bagni, nelle gelide acque di una pozza contornata di piccoli salti spumeggianti formata da un gioioso fiumiciattolo di cui non ricordo il nome; non siamo così fortunati quando penetriamo nel variegato universo di un orchideario (si dice così?), perché scopriamo che la stagione più indicata per osservare gli splendidi fiori va da aprile a maggio. Infine, un ulteriore percorso su un sentiero circolare in salita, dove peraltro veniamo colti dalla pioggia, ci premia con un fantastico scorcio, nella nebbia, della pianura sottostante. Siamo stregati dall’incantesimo, ma anche

stanchi, per cui tornando, zuppi fino al midollo, ci accingiamo con gaudio, a provare nella finca la cucina di donna Corina anche se (mancando il frigorifero), le Toña in lattina non ci pervengono adeguatamente ghiacciate, ma si sa, tutto non si può avere … Un’esperienza breve ma intensa; parlando con donna Laura (anche la mattina seguente a colazione), ci rendiamo conto che gli abitanti di queste terre, semplici in apparenza, rivelano un carattere forte, temprato da un passato di guerre (qui furono ribaltate le sorti dello scontro con i Contras a favore dei Sandinisti), e pervaso da un sogno non troppo utopistico di eguaglianza economica e riscatto sociale.Intanto è scesa la notte fredda e velata di nebbia; mentre ci accingiamo a guadagnare la camerata unica, dove ci attendono pesanti coperte con le quali ci difenderemo dai rigori climatici, mi viene in mente che siamo intorno ai 1300 m di quota: l’altitudine del quetzal … … Il mattino seguente, il primo di agosto, via Esteli, Tipitapa, Masaya, siamo diretti a Granada, verso sud. Con una jeep ci muoviamo verso Esteli che non vedremo, ancorché una visita proprio la meriti, in quanto città protagonista sia durante la rivoluzione, sia poi nella guerra dei Contras. Linda, con una urbanistica geometricamente ben definita, climaticamente favorita, ricca di bar, negozi e localini di ogni genere, guadagna però solo la visita ad una fabbrica di sigari, con negozio vendite annesso; li acquistiamo visto che Esteli produce tabacchi tra i migliori al mondo. Soddisfatti ci accingiamo quindi alla nostra tappa di trasferimento verso Granada. I bus di cui ci serviremo spesso nel corso del viaggio, alternandoli a taxi e busitos, costituiscono un’altra esperienza antropologicamente singolare: vecchi scuolabus vivacemente colorati (un classico in Centro e Sud America), ospitano un quantitativo inimmaginabile di persone, ben oltre quella che sarebbe la portata massima; inscatolati come sardine felici, senza poter muovere nient’altro che i globi oculari, ci godiamo le voci ed i colori di una umanità variopinta, con donne incinte, vecchi, bambini, venditori che cercano di piazzare gli articoli più astrusi e gente che circola nel corridoio scavalcando valigie, pacchi ed animali con una di-sinvoltura da passeggiata in Via del Corso … Ne usciremo sorpresi e un po’ storditi; ma il viaggio prosegue e dopo aver superato Tipitapa, con un altro mezzo di trasporto, approdiamo finalmente a Granada.Vi arriviamo seguendo strade collaterali e pittoresche; la nostra destinazione è il malecòn, dove ci attende l’hotel El Maltese. L’alberghetto, immerso in una vegetazione rigogliosa è davvero delizioso, con una mirabile ubicazione fronte lago e camere semplici ed accoglienti dotate di soffitti con massicce travi di legno; la visione d’insieme del lungo lago inondato dalla luce tropicale, del terminal – traghetti sulla sinistra e dell’interminabile teoria di palme mosse dalla brezza, crea una viva sensazione. Procediamo ad una visita ancora una volta fin troppo rapida, alla

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NicaraguaNicaragua

città più antica del Nuovo Mondo, conservatrice, ma non meno fascinosa della rivale Leon. Piegando verso sinistra in direzione della vivace Calzada che sembra ospitare oltre alla gente del posto, tutti i viaggiatori ed i residenti stranieri del Nicaragua in un mix elettrizzante, intercettiamo la Iglesia de Guadalupe (1626), nobile, grigia, cadente ed austera, costruita come una fortezza e fieramente isolata rispetto al cuore pulsante della città. Procedendo di un chilometro circa, giungiamo alla cattedrale di Granada (1583), brillantemente colorata se confrontata con la precedente; di fatto distrutta innumerevoli volte è stata ricostruita nella sua versione attuale nel 1915 e costituisce un eccellente preludio al parque central che le si dipana di fronte. Anche chiamato Parque Colon, alla fine (o se preferite all’inizio), della Calzada ci appare debordante di gente e gradevolmente ombreggiato da manghi ed alberi di ogni tipo; non ci lasciamo pregare e dietro suggerimento di Marcello decidiamo di concederci una pausa presso un chiosco dove ci rifocilliamo con un piatto di vigoròn (molto segnalato nelle guide, ma non propriamente esaltante per il sottoscritto), con Toña gelata di ordinanza. Qui cadiamo in errore perché manchiamo di chiedere un bicchiere di chicha (la bevanda nazionale che in loco avremmo sicuramente trovato e che poi vanamente tenteremo di sperimentare nel resto del viaggio), cremosa bibita color rosa a base di mais, servita fredda … l’attimo fuggente … Siamo spaesati; Granada è bella, ma il clima caldo – afoso è tutt’altra cosa rispetto a quello dell’altopiano centrale e mentre siamo soggiogati da una banda ambulante di bambini armati di assordanti tamburi (che pure paiono svolgere un’azione culturale, con maschere e movenze che rimandano ad antiche tradizioni locali), non possiamo fare a meno di ammirare le formazioni volanti di zanate (Quiscalus nicaraguensis), che compiono, pur senza uguagliarle, evoluzioni spettacolari non lontane da quelle degli stormi nostrani.La visione di questo chiassoso e simpatico uccello, dalla lunga coda, ci accompagnerà in tutto il viaggio. Infine lunga ricerca del ristorante, con ottima cena, birra squisita, purtroppo senza un vero patio; ma a proposito di patios … Il mattino seguente, due di agosto, ci attende il microbusito di Riccardo, un italiano trapiantato e sposato in Nicaragua; previo accordo del giorno prima, ci condurrà nelle nostre escursioni nei dintorni di Granada.Ancorché sarebbe stato forse più indicato inserirla alla fine della giornata, cominciamo con la laguna de Apoyo, un antico lago craterico incastonato in un anello di fitte foreste, visitate dalle scimmie urlatrici. Le acque, lievemente salmastre, sono cristalline ma piuttosto calde per la presenza di molte fumarole subacquee; ci tratteniamo un’oretta, tempo utile per goderci un secondo fantastico bagno Nica … La rivediamo dall’alto, dal mirador di Catarina, graziosa cittadina fiancheggiata da spettacolari serre con piante tropicali dai variegati colori, dove godiamo di

una superba visione, con un colpo d’occhio che abbraccia al contempo lo specchio cristallino della laguna, Granada, e le acque opalescenti del lago Nicaragua; non ci meraviglia che Sandino elevasse il mirador a suo luogo di meditazione preferito, durante gli anni della giovinezza. Attraversiamo di passaggio San Juan de Los Platos, altra tipica cittadina coloniale, dove nei variopinti negozi si realizzano belle ceramiche decorative e puntiamo verso Masaya, città nota per i suoi prodotti artigianali, rinomati in tutto il Nicaragua. Di fatto ci concediamo una visita al Mercado Viejo, davvero singolare; di esso non mi colpisce tanto la straordinaria profusione di articoli di ogni genere (di qualità e a buon mercato), quanto le bizzarre geometrie dell’architettura nel suo insieme. Grigie colonne basaltiche compongono con torri e grandi portali una curiosa struttura gotica concepita come una fortezza, attraversata da vialetti ombrosi lungo i quali si allineano i tipici chioschi. L’edificio si configura come un cantiere aperto; distrutto dalle milizie di Somoza, è stato restaurato di recente ma non si capisce se i lavori siano del tutto terminati ed attraversarlo sembra un’avventura metafisica.Nel pomeriggio giunge un momento di ‘turismo avventuroso’. È in programma, infatti, una visita al Parco Nazionale del vulcano Masaya che raggiungiamo sempre a bordo del busito di Riccardo. Un ampio slargo dove parcheggiamo circonda il bordo craterico e la vista già a distanza appare impressionante. Alte colonne di vapori sulfurei si innalzano dal cratere lasciando scorgere qui e lì paurose pareti verticali strapiombanti nell’abisso. A ragione gli Spagnoli lo consideravano la ‘bocca dell’inferno’ e gli autoctoni la dimora di deità infere, e comprendiamo la presenza di una croce apposta sulla sommità del dirupo, quasi a esorcizzare potenziali tragedie. Per quanto bardati di appositi elmetti fornitici alla stazione-museo di entrata, non risulta possibile intraprendere un sentiero sulla destra che avrebbe consentito una visione privilegiata per quanto parziale dell’abisso e quindi ci limitiamo ad affacciarci sul muretto che orla la parete sinistra (rispetto all’area parking), del cratere.A questo punto Marco, colto da raptus empedocleo, nel tentativo di immortalare un urubù che qui chiamano pilote (Coragyps atratus), fermo e indifferente a poca distanza su una cengia della parete sottostante, sporgendosi rischia di perdere l’equilibrio, ma il pronto intervento di Marcello risolve la difficile situazione…In realtà con il termine Masaya si individua oltre che un vulcano, un intero complesso calderico che contiene al suo interno numerosi altri coni come il San Pedro, il Nindirì , il Santiago, oltre che una laguna interna. Questo presenta alcune anomalie (strana ad es. la composizione basaltico – toleitica della caldera in un ambiente geodinamico definito dalla convergenza di placche), non ultima quella che la caldera stessa derivi da sprofondamento seguito alla rapida emissione di grandi quantità di magmi con conseguente svuotamento repentino della camera magmatica; configurando così un quadro che potrebbe essere assimilato ai

complessi hawaiiani, sia pur in un contesto geologico completamente diverso … Uno strano mondo davvero quello del Masaya; a scuoterci provvedono gli sguardi mai paghi di Roberta e Rosanna che ora puntano, famelici (quindi inducendo noi uomini, che non possiamo es-sere da meno, ad impegnarlo), verso un breve sentiero in salita (sendero Las Coyotes?), che snodandosi tra campi di lava e macchie di foresta, ci porta sul ciglio di un cratere estinto ricolmo di giungla tropicale; altra visione sublime che conclude in modo mirabile l’avventurosa giornata. L’evento finale che ci allieta è la vista di una mezza dozzina di parrocchetti (Aratinga canicularis o forse Brotogeris jugularis, o più probabilmente Aratinga finschi, proprio non saprei dirvi), come lampi di verde che attraversando con volo sicuro e senza risentirne i vapori tossici, vanno a posarsi sui loro nidi proprio sulle pareti del cratere.Dopo un passaggio commovente all’Antigua Estacion de Ferrocarril, nella luce dorata calcinante dove nobili vagoni attendono invano il fischio di una locomotiva a sua volta cristallizzata nel tempo, è il momento di rientrare a Granada dove ci aspetta, dopo una meritata doccia, un altro ristorantino niente male, dove consumiamo una delle cene più gustose con birra, naturalmente, insensatamente ‘helada’; il falso patio, tuttavia, non è all’altezza delle aspettative; per questo dovremo aspettare ancora un giorno … Il mattino dopo (3 agosto), lungo la spiaggia prospiciente l’albergo, affittiamo una lancia a motore con la quale puntiamo verso Las Isletas, una costellazione di minuscoli isolotti tropicali formatisi migliaia di anni fa in seguito ad una potente eruzione del vulcano Mombacho (che ci attende nel pomeriggio, clima permettendo). Dopo un’ora circa di percorrenza sulle acque

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04 Esteli, riserva miraflor verso nord05 Managua, cattedrale vecchia

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calme del lago, incrociamo le prime isole rivestite di lussureggiante vegetazione e placidamente galleggianti su specchi di colore verde smeraldo. Il conducente rallenta i giri del motore e si può quasi affermare che la lenta penetrazione di quel mondo paradisiaco avvenga in un silenzio assoluto, solo striato dal lieve sciabordio di piccole onde sulla prua. Il quadro però cambia rapidamente e presto scopriamo che la rarefazione antropica di cui avevamo goduto per qualche attimo, lascia il passo ad una ineluttabile colonizzazione: le prime isole lungo le quali cabotiamo sono abitate da famiglie indigenti che sicuramente non godono di diritti specifici (e che quindi vengono tollerate dalle autorità), mentre basta spingersi un po’ più oltre per scoprire, più o meno elegantemente integrate con la vegetazione, sontuose dimore di famiglie tra le più ricche dell’intero paese. Pur ammirando l’architettura delle più belle dobbiamo ammettere come l’incanto vada lentamente scemando; è quindi con gioia che accogliamo la visione sulla piccola Isla de los Monos, di una chiassosa piccola colonia di scimmie ragno (Brachyteles arachnoides), che con la loro leggendaria agilità si producono in una gamma di buffe esibizioni nell’intento evidente di ottenere cibo.Quando siamo sulla via del ritorno, nel-l’attraversare la frangia disabitata, il caso ci regala un altro incontro curioso con la spettacolare fauna locale: una piccola sagoma (20 – 30 cm), si muove serpeggiando nell’acqua; facciamo convergere la barca e senza esserne richiesto il conducente, con un gesto improvviso, afferra l’animaletto per la coda, offrendolo (per qualche istante), alla nostra vista in cotale configurazione non propriamente dignitosa. Mi sbaglierò, ma nella fugace visione sembra un opossum, o almeno un appartenente a questa famiglia di Marsupiali che, con il suo rappresentante più comune (Didelphis marsupialis), detiene la maggior espan-

sione geografica nel sistema della selva pluviale americana. In particolare potrebbe trattarsi, con quella striatura marrone giallastra alternata a fasce grigie di un opossum a coda grassa o luteolina (Lutreolina crassicaudata); Marcello non è d’accordo tendendo a considerarlo un roditore comune, ma tant’è; liberato, intanto, l’animaletto guadagna rapidamente la riva e rimontando un tronco, scompare alla nostra vista, nascondendosi tra le fronde.Mentre rientriamo, ci ritroviamo per un attimo a coltivare l’idea di acquisire, facendo convergere le nostre risorse, un isolotto con annessa abitazione. Fantasie, naturalmente, ma ci pensate, un an-golo in un piccolo paradiso sul lago Cocibolca con gli splendori coloniali di Granada ad un tiro di schioppo …L’ultimo regalo che ci fanno le Isletas è la visione di un gruppo di alberi le cui fronde sono completamente costellate di nidi di oropendula di Montezuma (Psarocolius montezuma), di colore marroncino chiaro con la loro caratteristica forma a goccia rastremata, a testimonianza di come il Nica possa costituire un vero e proprio paradiso per i birdwatchers … Nel primo pomeriggio giunge l’ora del Mombacho; notizie via radio suggeriscono che la cima del vulcano vada lentamente sgombrandosi della coltre di nuvole che quasi perennemente la ricopre; della qual cosa avevamo avuto sentore durante il rientro dalle Isletas. Siamo fortunati, il Mombacho non si concede facilmente. Raggiungiamo con un taxi la Fundacìon Cocibolca (Riccardo non è oggi disponibile); di lì veniamo trasbordati su una ecomobile (una jeep militare modificata), per affrontare la salita su pendici che presentano un’inclinazione del 40% fino ai 1100 metri di altitudine. Siamo prossimi alla cima che svetta un paio di centinaio di metri più in alto e nonostante il fatto che il clima alla fine non si sia affatto

messo al bello, decidiamo indotti dalla scalpitante Rosanna, di impegnare uno dei due sentieri che girano intorno all’orlo del cratere (sendero del Crater o sendero la Puma, non ricordo). Avanziamo fendendo la nebbia, nell’umidità incombente tra corone di foreste, fermandoci soggiogati a contemplare lo spettacolo dai frequenti miradores, ammirando soffioni e fumarole, avvertendo in silenzio il profondo respiro della Terra … Dopo un’ora circa, disorientati ma appagati e quasi perdendo l’orientamento (non fosse per il gps palmare di Marcello), ma sempre seguendo il sentiero che spesso si dirama in bracci laterali, giungiamo alfine al punto di partenza, grati al ‘grande signore’ di Granada per averci concesso questa fugace ma bellissima esperienza.Più avanti nel pomeriggio, tornati a Granada, il taxi ci lascia dinanzi alla elaborata e bianca facciata dell’Iglesia San Francisco. Ulteriore stupefazione: la bellezza dell’edificio, la chiesa più antica del Centro America (1585), distrutta a più riprese, quando non da terremoti da predatori come il filibustiere William Walker nel 1856, e sempre ricostruita o restaurata. Austera ma impreziosita di riccioli barocchi, ci lascia senza fiato e anche se l’accesso è (come sempre), interdetto, basta la vista esterna, con il Mombacho sullo sfondo ora completamente sgombro, a solleticare, vellicandolo, il nostro senso estetico. Gli dei centro-americani ci vengono poi in soccorso, perché scopriamo che il contiguo museo è aperto; vi accediamo attraverso una porticina sulla sinistra e dopo aver superato l’atrio con grandi murales variopinti, siamo a contatto con il cuore stesso della struttura: una sequenza di tre cortili giustapposti, popolati di zanate e ornati di altissime palme eleganti e flessuose, in concomitanza dei quali si aprono i vani con i reperti archeologici. Dopo aver passato in rassegna le interessanti opere di matrice primitivista, con accurate ricostruzioni in cartapesta delle tribù dei nativi, intenti alle loro attività quotidiane, veniamo attratti da un lungo corridoio aperto su due lunghi lati lungo i quali sono schierate le misteriose sculture rituali di Zapatera. Realizzate in basalto nero tra l’800 ed il 1200 d.C. su questa isola, rappresentano strane creature mitologiche incombenti su figure antropomorfe annichilite nel contrasto; un vago senso di disagio si impadronisce di me quando intuisco che siamo ben lontani dal penetrare fino in fondo i segreti di questa terra … Ma poi … il Garden Cafè! Lo avevo intravisto all’andata poco prima di giungere al Convento San Francisco; la fugace occhiata che gli avevo lanciato mi aveva consentito di scorgere oltre il salone di entrata, una macchia di verde scintillan-te, un patio sicuramente e dei più belli … Detto fatto! Usciti dalla Iglesia, promuovo, in modo tale che non mi si possa opporre un rifiuto, di visitarlo; la proposta viene accolta con entusiasmo anche perché Marcello non manca di ventilare una birra ‘insensata’, visto il caldo che ci attanaglia e considerato il fatto che le visite culturali e non, per quel giorno, siano terminate. La visione è impagabile: un minuscolo gioiello quadrangolare

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06 Granada, iglesia San Francisco07 Granada, vulcano mombacho-passaggio

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chiuso da alte mura su due lati, elegante porticato ligneo con tavoli sugli altri due, vegetazione alta e lussureggiante, fontana con fresche acque stillanti su tre livelli e due minuscoli vialetti che partendo da questa, convergono al fondo su una panca con annesso tavolinetto, di pietra corrosa, di un materiale sembrerebbe non dissimile da quello delle inquietanti sculture viste appena qualche attimo prima …Ci sediamo ed ordiniamo la birra (non una Toña, bensì una Victoria Frost questa volta); mentre ristiamo in estatica contemplazione, dopo qualche istante di piacevole conversazione, accade qual-cosa di strano: vengo ancora una volta, a breve distanza, colto da una sottile inquietudine … sento il bisogno di alzarmi e dopo essermi scusato con i compagni, mi dirigo lungo uno dei due vialetti portando meco la Frost gelata … giunto all’altezza della panchina di pietra, mi ci accomodo e, accendendo un sigarillo, mi perdo … visioni oniriche, stanchezza che ottunde i sensi, deragliamento alcolico (Frost alle 17), forse … quello che so, che capisco, è che qualcosa, in questo pur fantastico viaggio, mi stia sfuggendo, che continui a sfuggirmi, qualcosa di vicino e, al contempo, incredibilmente lontano … Ma è questione di un attimo, e mi riprendo rapidamente mentre fantastici uccelli tropicali atterrano e decollano dalla fontana in un tripudio di luci moltiplicate nelle iridescenze di gocce nebulizzate … non c’è che dire, un vero ‘onfalos’ fisico e metafisico … All’uscita, mentre gli altri si accingono a dirigere verso il mercato vecchio di Granada, chiedo di rientrare in albergo, per dare riposo alla gamba; percorro a ritroso la Calzada e giungo a destinazione nel pomeriggio inoltrato. La visione del malecòn disertato dalla gente mi affascina e mi ritrovo a pensare che questo luogo sarebbe forse incline allo spirito di Corto Maltese (la cui immagine troneggia in un murales dell’albergo), quando si affaccia il ricordo della ‘ballata del ma-re salato’, dinanzi alle acque scintillanti del lago.Non è facile raggiungere il ristorante ‘Las Colinas del Sur’ dove (per quanto ci è stato detto), ‘dobbiamo assolutamente andare a mangiare’, un po’ fuori mano e che raggiungiamo con un taxi. Il pavimento in terra battuta, l’atmosfera fami-liare e il ‘guapote’ fritto delizioso, costituiscono un tassello ulteriore nella memoria.

NICARAGUA

In una delle zone geologicamente più instabili dell’intero pianeta, il Nicaragua costituisce il vero istmo centroamericano, dove si realizza la saldatura tra i due subcontinenti grazie soprattutto all’intensa attività vulcanica, connessa con la grande orogenesi che ha portato all’innalzamento delle possenti catene montuose lungo il bordo del Pacifico (firebelt circumpacifica). Il Nicaragua ospita anzi l’elemento strutturale più caratteri-stico dell’istmo, la ‘grande depressione’, un ampio solco tettonico, l’autentico confine fisico tra il mondo nordamericano e quello sudamericano.

Fu proprio questa barriera, più volte inondata dall’oceano nel corso degli ultimi milioni di anni, ad essere alternativamente attraversata da esponenti della fauna nordamericana (paleartica), nel loro processo di irradiazione verso sud. Abbiamo detto alternativamente perché non sempre le condizioni geomorfologiche dell’istmo lo avrebbero permesso. Di fatto si distinguono tre ondate migratorie verso sud a partire da settanta milioni di anni fa: quella degli antichi immigrati (corridoio aperto), quella degli antichi saltatori di isole (istmo inondato ma costellato di isole), quella degli ultimi immigrati; ma allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere come nei periodi intercalati, l’isolamento geografico fosse praticamente assoluto.I continenti che rimasero per più o meno tempo isolati subirono autentiche catastrofi zoologiche quando le loro forme vennero a contatto con la irrefrenabile ondata dei colonizzatori; ma se conside-riamo il vastissimo mosaico di regioni naturali che configurano il mondo neotropico (Centro, Sud-America), che vanno dal deserto di Atacama al bacino del Rio delle Amazzoni, passando attraverso un cosmo di ambienti intermedi; il processo di diversificazione subito dagli organismi durante i lunghi periodi di iso-lamento; le pressioni selettive dovute al contatto con la fauna alloctona etc.; possiamo spiegarci la favolosa esplosione di forme e di varietà animali (così come la sopravvivenza e la convivenza di forme originali con specie giunte da altre latitudini), che caratterizza questo mondo fantastico, ad onta delle numerosissime estinzioni che comunque si determinarono (marsupiali, con l’eccezione di opossum e affini).La grande fossa tettonica rappresenta un fondamentale elemento divisorio anche per il Nicaragua che separa in due aree molto diverse per estensione e geomorfologia. La prima di queste, quella posta tra la fossa e la costa caraibica è prevalentemente costituita di formazioni molto antiche (rocce precambriche), parzialmente ricoperte di sedimenti di origine più recente e rocce effusive di composizione basaltica. Depositi alluvionali risalenti a pochissimi milioni di anni fa, costituiscono poi la vasta pianura litoranea nota come ‘Costa dei Mosquitos’, che affacciandosi sul Mar delle Antille, presenta coste basse orlate di lagune a mangrovie. Verso l’interno il territorio presenta una serie di altopiani profondamente incisi dall’erosione e orlati da alcune dorsali che, in qualche caso, (Cerro Mogotòn), superano i 2000 metri.Completamente diverso appare l’altro versante (sulla linea del quale si è prevalentemente articolato il viaggio), tra la grande depressione e la costa del Pacifico, evidente testimonianza della violenta e prolungata attività vulcanica che ha accompagnato la nascita delle cordigliere americane e che tuttora permane. L’ambiente geodinamico si configura in base al movimento di convergenza tra la placca oceanica di Cocos, spinta verso oriente dalla retrostante dorsale del Pacifico e la placca mista caraibica spinta con

polarità opposta (verso occidente), dalla dorsale medio-atlantica. La prima più densa si immerge al di sotto della seconda; i materiali oceanici e in parte terrigeni, proiettati verso il basso, giunti a contatto con strati profondi più caldi, fondono diventando magma il quale, meno denso, risale verso l’alto generando un allineamento di vulcani altamente esplosivi (calcoalcalini).Disposti lungo la direttrice N-W, S-E or-lano, talvolta penetrandovi (isola di Ometepe), la grande depressione nicaraguense, a sua volta parzialmente occupata dai bacini dei laghi di Managua e di Nicaragua. Nel loro insieme costitui-scono i cosiddetti los Marrabios, un complesso di una ventina di edifici che vanno dal Cosigüina in corrispondenza del Golfo di Fonseca a nord (versante pacifico), vasta caldera di ca. 1 km, elo-quente testimonianza della spaventosa esplosione che nel 1835 ne squarciò la gran parte della struttura sommitale; al Momotombo responsabile delle violente eruzioni che lo ridussero dai precedenti 1600 m, agli attuali 1280, che si erge a Nord del lago di Managua fiancheggiato dal più piccolo Momotombito, emergente dalle acque del lago stesso; al più recente, il Cerro Negro che risale appena al 1850; ai coni gemelli del Conception e del Maderas che, uniti da un istmo, formano l’isola di Ometepe (lago Nicaragua), la più grande del Nicaragua.Questo scenario unico dal punto di vista biologico, come abbiamo visto, come da quello fisico e geologico, ha costituito la cornice di un viaggio strepitoso nel suo genere che, nella fattispecie, ci ha portato ad un contatto (più o meno profondo), con i vulcani: Cerro Negro, Masaya, Mombacho, Conception, Maderas, cui va aggiunta la spettacolare visione a distanza (lungo il tragitto per Esteli) del cono, geometricamente perfetto del Momotombo.

VIAGGIO – PARTE SECONDA

Il giorno dopo (sabato 4 agosto), di buon mattino partiamo per San Carlos, con il busito di Riccardo; dopo circa due ore di viaggio perdiamo almeno 20 minuti per un ingorgo inestricabile causato da

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due autoarticolati parcheggiati in una strettoia in corrispondenza di una curva; non manchiamo, al proposito, di notare da un lato la nonchalance dei conducenti, candidamente irreperibili, dall’altro l’assoluta imperturbabilità dei proprietari delle auto bloccate.Al porto di San Carlos, ci imbarchiamo su una lancia a motore che dirigendosi verso oriente sul fiume San Juan, ci porterà fino a El Castillo. Subito dopo la partenza, incappiamo in una intensa pioggia equinoziale dalla quale ci difendiamo disvolgendo i teloni laterali; ma dopo circa un’ora il diluvio si interrompe consentendoci di ammirare un bellissimo ambiente tropicale, lussureggiante … Durante il tragitto non posso fare a meno di osservare con una certa inquietudine le acque limacciose dove potrebbero ancora incrociare esemplari di squalo leuca (Carcharinus leucus), tra i pochi del suo genere e forse l’unico specifico a prediligere le acque dolci, antropofago. Di fatto risulta sempre più difficile da avvistare; sottoposto ad una caccia spietata (le industrie alimentari cinesi giungevano a pagare cifre spropositate per le sue pinne), è stato portato quasi sull’orlo dell’estinzione, almeno in questa parte del mondo. Gli esperti sostengono che le uniche colonie rimaste siano quelle intorno al punto d’accesso al Rio san Juan (ci siamo passati), rigoro-samente circoscritte alle acque più profonde. Nel primo pomeriggio siamo a El Castillo e mentre la pioggia riparte più a dirotto che mai, ci rifugiamo nell’ufficio turistico, prospiciente il molo, dove pianifichiamo quelle che saranno le prossime escursioni. Non tardiamo a legarci emotivamente a questo pugno di case colorate, semplici e deliziose, spesso strutturate a palafitte, attanagliate dalla foresta, nobilitate dalla piccola e stupenda fortezza, ombreggiate da palme da cocco, e dipanate lungo uno slargo del fiume, in questo punto particolarmente ampio. Rag-giungiamo, percorrendo in fila indiana il vialetto principale, il nostro piccolo hotel: El Chinandegano, dove ci attendono camere semplici affacciate su una vezzosa veranda traballante in legno con incantevole vista sul fiume. Al crepuscolo siamo prenotati per un’escursione in lancia onde avvistare i caimani; attraversato il corso principale, spento il motore, imboccando bracci laterali, sotto costellazioni tropicali (il tempo è splendido, al-meno nella prima parte), ci immergiamo nel silenzio della giungla dove i rettili dagli occhi rossi scintillanti ci attendono nella notte. Intercettati dai raggi delle torce, ne vediamo alcuni, con brivido, per quanto si sappia che la specie autoctona (un metro e mezzo di lunghezza), non risulti pericolosa per l’uomo.Di più, proviamo l’emozione di accarezzare un piccolo (15 cm), prelevato dalla guida che prudentemente gli tiene serrate le fauci; la sensazione che regalano al tocco le squame levigate ed umide è singolare … Riposto nell’acqua il simpatico ed inquietante animaletto, ripartiamo ma questa volta il rombo di un tuono non lontano ci suggerisce che il ritorno avverrà sotto una pioggia scrosciante. Come cambia

presto il tempo ai tropici! ... Alla sera gradevole ristorantino sulle rapide e poi verso le 22 rientro in albergo. Che a quest’ora la vita si arresti in Nicaragua, mi viene confermato da una passeggiata solitaria sul viale principale: non un’anima viva nel silenzio rotto solo dalle rapide, ove si eccettuino alcuni grossi rospi che attraversano il selciato indisturbati. Il mattino del cinque agosto con una guida e due olandesi giramondo aggregati, ci imbarchiamo su una lancia e dopo aver rasentato il confine del Costa Rica (con asimmetrico paesaggio sulle due sponde), sul versante meridionale del fiume, imbocchiamo un emissario, il Rio Bartola che segna, dopo poco, l’ingresso al tratto più accessibile di una delle foreste primarie più importanti del paese: la Riserva Biologica Indio-Maìz. Dopo aver rilasciato le no-stre generalità alla stazione dei ranger del parco ed essere stati allietati da un parrocchetto di splendido colore verde (la mascotte locale); condotti da questi in una macchia dove rapiti contempliamo due rane del genere Dendrobates dalle magnifiche livree e dal veleno micidiale (con il quale gli indigeni intingono le punte delle loro letali cerbottane), accediamo dopo un altro breve percorso in barca, all’ingresso della Riserva, dove ci attende un percorso di 4 ore, un’altra esperienza probante di un viaggio irripetibile.Avanziamo in uno strato di fango di almeno 10 cm; il silenzio è terebrato dai versi di innumerevoli animali selvatici che in un primo momento, almeno non prima di aver temprato lo sguardo in quell’universo verde tridimensionale, non vediamo e dalle alterne spiegazioni della guida che gradualmente ci inizia ai suoi misteri. Mi colpisce quella sugli alberi semoventi che, poggiando su radici esposte nel terreno, ne gettano di nuove verso una direzione, mentre sopprimono quelle nella direzione opposta (ma i trifidi non sono un romanzo di fantascienza ?).Mentre procediamo cogliamo al volo una penna di volatile fluttuante nell’aria, di un bel colore blu elettrico; secondo la guida potrebbe trattarsi di Guardabarranco azzurro, alias motmot (Momotus momota), parente stretto di Eumomota superciliosa, uccello nazionale (tra le mani la quintessenza del Nicaragua); me ne impossesso con gesto repentino. Più oltre comincia la processione degli animali; nell’ordine avvistiamo: in volo planato un hocco (Crax rubra), qui deno-minato pavone grande; un colibrì del genere Hylocharis o Amazilia (o anche Archilochus); una interminabile teoria di formiche tagliafoglie,

che danno prova di forza e tenacia straordinarie nel trasportare con le mandibole frammenti di fronde molto più pesanti del proprio stesso corpo; altre enormi formiche che sul tronco degli alberi infliggono morsi dolorosi; iguane verdi; un cebo cappuccino (Cebus capucinus), che si produce in una gamma di buffi ed assordanti schia-mazzi, quando osiamo sfiorare il suo territorio; scimmie urlatrici (Alouatta villosa), e gigantesche farfalle imperatore (Morpho hecuba). Sembra che da queste parti aleggi anche il re, il giaguaro (Panthera onca), ma, naturalmente, non abbiamo la ventura.Storditi da tanta bellezza, continuiamo ad avanzare nel caldo umido dovendo guardare anche al suolo, dove il fango insidia l’equilibrio; io (con qualche problema in più per via della gamba), lo perdo più di una volta, cadendo ed inzaccherandomi (avendo poi subito la possibilità di lavarmi nelle fresche acque di un ruscello); Roberta a sua volta precipita su un fianco con uno stivale intrappolato nelle vischiosità della mota, con Marcello che, premurosamente, la sostiene. Ancora il sottoscritto si ferisce ad una mano contro le spine di un albero (mai cercare l’equilibrio appoggiandovisi), e sanguina copiosamente. Solo Rosanna e Marco escono indenni da questa prova e con olimpica imperturbabilità, ci sostengono nell’affrontare l’ultima parte del sentiero che, pur esibendo meno fango, ora è in salita. Infine riguadagnando la barca, dopo aver lavato gli stivali nelle acque del fiume, ci abbandoniamo chi sui sedili, chi sul fondo, affranti ma gratificati, sulla via del ritorno.Nel pomeriggio dello stesso giorno, dopo aver risalito la collina soprastante il paese, siamo alla fortezza più propriamente conosciuta come la Fortaleza de la Limpia e Immaculada Concepciòn. Piccola ma affascinante, architettonicamente perfetta nella sua limpida e simmetrica geometria, gode dei benefici effetti di un provvido restauro iniziato nel 1993. Ci disperdiamo nella visita e mentre immortaliamo le incredibili vedute dai torrioni, ‘avvertiamo’ il senso della storia. In questo piccolo luogo, immerso nella giungla ne è passata tanta; sembra ancora di sentire l’eco lontana del clangore delle armi, il tuono dei cannoni amplifi-cato dal silenzio della foresta; di percepire la presenza di figure singolari come l’eroina locale Rafaela Herrera che a soli 19 anni, con suo padre gravemente ferito, assunse con successo il comando della fortezza (sembra in camicia da notte), mettendo in fuga i pirati; o come nel 1780 l’allora ventiduenne Horatio Nelson, che si faceva

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le ossa in Nicaragua, e, ancora lungi dal diventare ammiraglio, decise di conquistare El Castillo, cosa che gli riuscì (anche perché il governo spagnolo era poco incline a mantenere il controllo di un’area infestata dalla malaria), per qualche mese, prima che le malattie decimassero i suoi uomini. Mi piace pensare che queste terre tropicali gli si imprimessero dentro, prima che proseguendo in carriera, incontrasse la morte e la gloria a Trafalgar.Dopo un’ulteriore passeggiata nelle stradine collaterali di El Castillo, rientriamo in albergo, dove in serata ci attende sulla veranda una cena a base di gamberi di fiume, direttamente preparati dal ge-store, doña Ema, che piacendo a tutti, mandano letteralmente in sollucchero Marco, che tenterà invano di ripetere l’esperienza nei giorni a venire; naturalmente birre insensate a profusione … Il giorno dopo, ci distacchiamo con la barca dal molo di El Castillo con un’ombra di nostalgia e navighiamo a ritroso verso San Carlos. Poco prima di giungervi, la barca dopo aver scoppiettato, si ferma per esaurimento carburante (nessuna meraviglia, siamo in Centro America); mentre aspettiamo i soccorsi, dondolando nel silenzio della giungla circostante ed ammirando i martin pescatori i cui voli acrobatici si intersecano sulla superficie dell’acqua, ancora una volta (la seconda per la precisione), ci troviamo ad osservare un po’ stupiti (ma ora meno), il ‘take it easy’ degli autoctoni in attesa degli eventi con inossidabile im-perturbabilità.A San Carlos, dopo aver constatato l’impossibilità di accedere al ferry, ci accordiamo per una lancia che ci condurrà in poco più di un’ora alle isole Solentiname, nella parte meridionale del lago.Più di una volta la ‘Lonely Planet’ suggerisce di non perdere ‘assolutamente’ questo arcipelago spesso dimenticato; arrivando lo capiamo e siamo anche d’accordo sul fatto che non sembri appartenere a questo mondo. Giungle silenziose e lussureggianti, acque limpide e tranquille nelle quali si riflette la foresta, animali di ogni genere (anche se ne vediamo pochi, per lo più stormi di Anhinga anhinga, che qui chiamano ‘poto’), non costituiscono i soli poli attrattivi; le Solentiname rappresentano anche il luogo elettivo di un’esperienza sociale che ha pochi eguali nel mondo: il sogno del sacerdote – poeta Ernesto Cardenal di creare in questo luogo fuori del tempo ed appartato rispetto al mondo globalizzato, una struttura economica autosufficiente basata sull’arte e sulla proprietà collettiva. Ce ne parla con fervore colei che è stata la sua segretaria, all’uscita di uno dei due interessantissimi musei (ciascuno ubicato su una diversa isola), che vi-siteremo. È senz’altro uno dei luoghi che più di altri ha conservato vivido l’ideale che ha ispirato la rivoluzione sandinista.La popolazione locale, rarefatta ed oggi armoniosamente diluita nello spazio verde, che abbandonò a se stesso l’intero arcipelago quando la Guardia Nacional fece irruzione sulle isole, rifugiandosi in Costa Rica, tornò a casa ricostruendo le proprie abitazioni ed una nuova chiesa un po’ naïf (che abbiamo avuto la fortu-

na di vedere in esterni), quando prese il potere il governo rivoluzionario; di più ritrovando il talento artistico e tornando a produrre lavori di pittura e di scultura.In una parola le Solentiname costituiscono oggi un mix perfetto di arte e natura e noi ci lasciamo incantare procedendo sui lunghi viali alberati oltre i quali lembi di foresta e le specchianti acque del lago, sembrano addormentarsi nella diffusa foschia pencolante tra il grigio e l’azzurro … Di ritorno a San Carlos, esploriamo la graziosa cittadina dove i resti delle antiche fortezze spagnole si mescolano quasi impercettibilmente alle abitazioni della gente; così per il ristorante che si affaccia su un piazzale (un antico bastione), dove tre pesanti cannoni di bronzo puntano ancora minacciosi verso l’orizzonte. L’alberghetto è semplice, con una simpatica veranda, ma senza patio.Il giorno dopo da San Carlos a San Jorge (con il busito di Riccardo che, a desti-nazione, ci lascerà), dove all’imbarcadero ci attende il ferry per Ometepe. Il vecchio, simpatico, traballante traghetto ci trasporta in poco più di un’ora, tra in-quietanti cigolii e strane richieste di dati anagrafici (per naufraghi potenziali), in questa meraviglia

del lago Cocibolca. A ragione considerata una delle sette meraviglie naturali del mondo, l’isola costit-uirà per noi il fulcro, il vero centro di gra-vità dell’intero viaggio, con i suoi due picchi vulcanici gemelli collegati da un sottile istmo e la vegetazione tropicale incantevole, fitta e misteriosa.Per razionalizzare, dato il tempo scarso a disposizione, Marcello invita a visitare subito la Reserva Charco Verde che troviamo lungo la strada per l’albergo, dotata di una splendida laguna verde, dal bordo della quale si gode di una bella visione del cono perfetto del vulcano Con-cepciòn.Mentre percorriamo i brevi sentieri afferenti facciamo un incontro sensazionale: ci imbattiamo in quello che ha tutta l’aria di essere un serpente

corallo (genere Micrurus), impegnato in uno spostamento trasversale che ci taglia la strada, mentre tenta di guadagnare la macchia. Dotato di un veleno micidiale, condivide con il leggendario barba-amarilla (Bothrops asper), o ‘ferro di lancia’, la condizione di ofide più pericoloso del Centro America. Potrebbe tuttavia anche trattarsi di un falso corallo; mentre lo ammiriamo affascinati, non analizziamo, infatti, la scansione cromatica degli anelli che ne costituiscono la bella livrea. Naturalmente, scimmie urlatrici quante se ne vuole.A pomeriggio ormai inoltrato giungiamo all’hotel Buena Vista: camere semplici, un giardino ben tenuto ed una veranda su più livelli con attraenti amache, digradante verso il lago preceduto da una bella spiaggia di sabbia, ovviamente vulcanica. Al crepuscolo, o poco prima, giunge il momento del bagno nel lago, il terzo del viaggio. Delizioso, le acque sono calme e pulite ed impagabile risulta la visione a destra e a sinistra dei due vulcani con le sommità, appena screziate di nuvole, emergenti dalla foresta, mentre il tempo sembra arrestarsi quando l’albergo accende tenui luci violacee nella notte. Birre ‘insensate’ a bagnare la cena in un ristorantino (di livello, però), chiudono questa

prima giornata nell’isola delle meraviglie.Il giorno dopo, eludiamo l’ascesa al Concepciòn (che richiederebbe non meno di dieci ore), ed optiamo per una salita parziale al Maderas (1394 m), fino alla Cascada San Ramon, un altro gioiello dell’isola. Sarebbe stato certo suggesti-vo (e faticoso), raggiungere la vetta frastagliata immersa in una foresta nebulare, per ammirare poi nella stupefazione il laghetto verde-giada che ne occupa il cratere, ma ci dissuadono le cinque ore di sola arrampicata in salita, avendo an-cora altro in programma nelle ore successive.Dopo aver percorso un lungo tratto di strada dissestata con una jeep, giungiamo alla Stazione Biologica di Ometepe da dove parte il sentiero per la cascata. Si tratta di una escursione di circa quattro ore tra andata e ritorno lungo un

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08 Managua, venditore di cappelli09 San juan del sur, andando a scuola10 Ometepe, vulcano Concepcion

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percorso di circa 3 km, due dei quali agevoli, mentre l’ultimo si presenta altamente ripido ed ostico. I primi due, a onor del vero, li avremmo anche potuti affrontare con la jeep, ma le ruote lisce di questa inducono il conducente a negare questa opportunità. Affrontiamo quindi il cimento di buona lena, anche perché basta la visione delle imperturbabili quanto agguerrite Rosanna e Roberta, a fugare qualsivoglia dubbio incipiente. Nonostante l’ultimo tratto metta a dura prova la gamba malandata e lo sguardo impegnato a ricercare equilibri, raramente (come sarebbe opportuno), si volga alla volta, il paesaggio è affascinante e la vegetazione intatta ancora una volta ci ipnotizza. Alla fine, dopo aver seguito il crescente frastuono delle acque scroscianti, giungiamo alla piccola piana dove troneggia sullo sfondo eterea, come un velo di sposa, una snella cascata che tra infinite gocce iridescenti precipita con un salto di 40 metri in un grazioso e gelido laghetto dove (naturalmente), non mancheremo di godere del quarto indimenticabile bagno.Dopo aver seguito, sulla via del ritorno, le frecce Rosanna e Roberta, con la jeep ci dirigiamo verso l’Albergue Ecològico El Porvenir, dove imboccando un breve sentiero di circa 1 km, giungiamo nel silenzio della selva, al cospetto di un gruppo di monoliti prismatici di basalto o tufo vulcanico, che recano in bassorilievo strane incisioni, per lo più profonde circa 1 cm, dal misterioso significato. Lungi dalla monumentalità spettacolare dei centri maya ed aztechi di Messico, Guatemala, Honduras e Belize, annidati in un ambiente rigoglioso, semisommersi nel muschio, probabilmente realizzati intorno al 1000 d.C. (secolo più, secolo meno), forniscono una testimonianza silenziosa di antiche popolazioni passate ai margini della storia.Un paio di km prima di Playa Santo Domingo, dove è dislocato il nostro albergo, non possiamo mancare una visita, pur breve, alla Presa Oyo de Agua, un complesso di due piscine vulcaniche na-turali ombreggiate da una folta vegetazione. Un tuffo rigenerante nell’acqua tiepida, ricca di sali minerali, alimentata da numerose piccole fonti sotterranee, costituisce il quinto bagno del viaggio, a suggellare un’altra giornata memorabile.Tornati in albergo, mentre sorseggiamo un’insensata (preludio alle Toña della cena), sulla graziosa veranda affacciata sul lago, riceviamo la visita graditissima di un altro esponente alato e spettacolare della prodigiosa fauna locale: un Magpiejay dalla coda bianca (Calocitta formosa), di circa mezzo metro si posa sull’asta della doccia esterna a poca distanza da noi; è davvero originale con la sua livrea bianco-azzurra, la coda forse più lunga di quella di uno zanate e l’indimenticabile cresta formata di quattro ciuffi a polarità inversa (concavità in avanti), posta sul capo. Bello e buffo al contempo.Dopo il ristorante, mentre gli altri guadagnano le stanze, mi concedo ancora un sigaro in veranda. L’atmosfera è strana; le luci sono state spente (tutto si ferma in Nicaragua dopo le 22); un vento caldo si è alzato ed una vibrazione elettrica permea il paesaggio velato di blu cobalto; il lago prima

tranquillo, ora è agitato ed onde fosforescenti si spengono sulla spiaggia, senza rumore alcuno; su tutto vegliano, quasi indistinti nell’ombra, i due guardiani di fuoco … Ancora provo un brivido che conosco ormai: il sottile disagio che crea una sensazione trascorrente, una sensazione che ti sfugge … L’alba seguente, tra Managua (alla quale comunque dedicheremo l’ultimo giorno), e San Juan del Sur, cittadina costiera posta all’estremo sud del versante pacifico, a non grande distanza dal confine con il Costa Rica, optiamo per quest’ultima, con il preciso intento di partecipare all’escursione notturna organizzata onde ammirare le tartarughe che spiaggiano per deporre le uova; un’esperien-za simile, vissuta alcuni anni fa nel vicino Costa Rica, ad incrociare la dermochelide coriacea, fu a tale proposito, struggente. Ma la fortuna questa volta non ci arride: al centro informazioni ci dicono che l’operazione non andrebbe a buon fine, dato che né le tartarughe olivacee, né le liuto, sembra si siano viste in questi giorni nei paraggi della costa. Comprensibilmente delusi ci mettiamo alla ricerca dell’hotel, ripromettendoci di godere comunque di quanto la cittadina, d’altro, abbia ad offrire. Optiamo per il Joxi, con camere essenziali (ovviamente), ma pittoresco balcone al piano superiore, con vista mare laterale e pappagallo parlante. Sulla vasta spiaggia bianca, ad orlare la baia, più tardi, in una giornata bella e caldissima, in tre (Marcello, Marco ed io), ci concediamo un bagno tonificante (sesto ed ultimo), dove sperimentiamo nella spumeggiante freschezza, l’impatto con le onde del Pacifico, che pur non gigantesche, lasciano intendere la potenza dell’oceano. A proposito di onde, non ci perdiamo nel pomeriggio un salto in una delle rinomate spiagge frequentate da surfisti a sud di San Juan, che raggiungiamo con una jeep; il contesto è molto suggestivo, sia-mo in un’area selvaggia dominata da lontani promontori sepolti nella vegetazione, appena un po’ oltre la vivace cittadina che oggi, destinazione balneare tra le più gettonate, subisce un graduale processo di trasformazione con l’edificazione di palazzi a più piani e l’acquisto dei lotti costieri. Tuttavia lo spettacolo del tramonto dall’arco della baia (un classico, non poteva mancare), le birre happy hour ed il ristorantino vista mare affacciato sulla spiaggia, ci risollevano lasciandoci l’impressione di un villaggio sul mare dal ritmo lento.L’ultimo giorno completo in Nicaragua comincia con un bus che ci trasporta nella capitale, Managua. Giunti al terminal, con un taxi raggiungiamo l’hotel Los Felipe, dotato di camere semplici e pulite immerse in un rigoglioso giardino tropicale con annessa piscina. Il clima è caldo, afoso e la prima impressione impegnando i lunghi viali ombreggiati, verso un centro che non esiste, è che la città, di matrice non coloniale, molto espansa nello spazio, non sia visitabile a piedi, cosa che peraltro puntualmente faremo, nella nostra ‘vuelta’, necessariamente circoscritta. Accaldati puntiamo verso il Parque Historico Nacional Loma de Tiscapa, cui arriviamo dopo aver affrontato una salita curvilinea, dalla cima

della quale, fiancheggiati dalla imponente sagoma scura di Sandino (una scultura metallica alta almeno venti metri), godremo di una mirabile visione della città, dipanata attorno al grazioso laghetto vulcanico del cratere Tiscapa (purtroppo ampiamente inquinato), con il Momo-tombo sullo sfondo. Ridiscesi utilizziamo un taxi per guadagnare il malecòn e dopo esserci sorbiti le raccomandazioni del conducente circa l’ambiguità della zona, puntiamo verso uno dei bizzarri chioschi dove, completamente soli, faremo colazione con un caffè vista lago, frastornati da una musica assordante e senza capire chi ne siano i fruitori. Il lago di Managua, qui noto come Xolotlàn, nome con assonanze autoctone, preispaniche, scintilla nel grigio splendore della foschia mattutina; sarebbe senz’altro suggestivo ed evocativo non fosse che basta affacciarsi dalla balaustra, per ricevere la triste conferma che si tratti di uno degli specchi d’acqua più inquinati del Centro America.Usciti, ci dirigiamo a piedi verso la Antigua Catedral che, barocca e affascinante non meno che grigia e austera mantiene orgogliosamente intatte le mura esterne a trincerare il vuoto (fu infatti quasi completamente distrutta dal terre-moto del 1972). Recita bene la Lonely: “ … una metafora di Managua; sorvegliata da angeli in pietra e screziata dalla luce dorata è vuota e chiusa al pubblico: una cattedrale senza cuore in una città senza centro”.Il tour prosegue poco oltre verso Plaza de la Revolucion, dove ci attende il bel Museo Nazionale che, lo avrete intuito, troviamo chiuso. Di fatto oggi è festa nazionale e le strade principali sono invase da carri da parata e cowboys locali che, impettiti e bardati nelle loro pittoresche tenute, orgogliosamente spingono al passo gli accondiscendenti destrieri. L’elegante palazzo risulta quindi inesorabilmente serrato e a nulla valgono le preghiere rivolte al custode di concederci una visione fugace delle sale (nemmeno la proposta di Marco di accennargli in cambio “Nicaragua, Nicaraguita”, basta a smuoverlo); ci accontentiamo allora, di una visione dell’androne e ci colpiscono i due patios gemelli che da un lato e dall’altro cingono la grande scala centrale. Così a distanza non so nemmeno se si possa definirli tali, forse sono giardini ma, in ogni caso, splendidi e illuminati da raggi obliqui di calda luce solare, costituiscono un toccante saluto per le nostre ultime ore in Nicaragua.Nel pomeriggio inoltrato con un taxi muoviamo verso il moderno Metrocentro che visitiamo dopo un’occhiata a distanza alla cattedrale Metropolitana (che lascia un po’ disorientati, per la verità, con il suo aspetto da moschea plurima); su-bito dopo il pittoresco ed animatissimo mercato popolare: duplice visione, a distanza ravvicinata,

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di mondi globalizzati e non, di realtà alloctone ed autoctone … Il Nicaragua ci ricorda che è un paese tropicale e, a notte ormai fatta, ci immerge in una pioggia torrenziale: con un taxi raggiungiamo un ristorantino che sembrerebbe aperto solo per noi, dove accanto alla cena ci porgono le ultime Toña insensate, ancora una volta erogate in calici a loro volta congelati, cui seguirà un brindisi finale con rhum ‘Flor de Cãna’, un mito nazionale.Non definirei deludente questa capitale (come altri hanno fatto); pur non vantando gli splendori di una città coloniale e non esibendo una precisa identità, mi è parsa piuttosto una città sospesa; costruita sopra una rete di faglie sotterranee, sembra in attesa tra l’ultimo sisma e quello a venire e intanto ti avvolge con i suoi interminabili viali silenziosi, pieni di verde, da dove le case appena spunta-no e che conducono in nessun luogo definito. Un labirinto in bilico, circondato dalla vegetazione in attesa … Salutiamo l’ultima alba in Nicaragua in aeroporto a Managua, da dove con un volo via Atlanta, torniamo in Italia.Devo, infine, un cenno ai miei gradevo-lissimi compagni di viaggio: Marcello, guida, coordinatore, ingegnere civile, un po’ poliglotta, in grado di barcamenarsi con serenità e senso della misura, in tutte le problematiche di ordine logistico che il viaggio ha proposto senza farle pesare agli altri e tutte brillantemente risolte; di lui ricorderò i quarti d’ora di pausa (dalle incombenze), che si ritagliava ogni qual volta incappava in un cane randagio con il quale, instaurata una pronta ed autentica amicizia, prendeva a giocare, recuperando l’infanzia; le sorelle Roberta e Rosanna, efficienti, temprate dalla palestra così come da innumerevoli viaggi pregressi, leggere come caprioli ed agili sui pendii come antilopi saltarupe africane (Oreotragus oreotragus), simpatiche, a tutto adattabili, in grado di non perdersi nulla e sempre stimolanti nei confronti della componente maschile, ove si trattasse di affrontare un percorso, un pendio, una qualsivoglia difficoltà; Marco, l’ineffabile, consulente informatico che ha impresso con la sua frescheza una impronta indiscutibilmente Discovery all’intero viaggio, generoso, in grado (beato lui), di addormentarsi ogni qual volta il caso lo disponesse in linea orizzontale, impegna-to nella costante ricerca della fotocomposizione (trascorrendo almeno 10 minuti prima di un click fotografico), pronto a pilotarci a pomeriggio inoltrato verso le ‘cervezas insensatamente helade’ che avrebbero allietato le nostre cene e teneramente proclive a commuoversi nel ricordo, cui gli eventi lo orientavano, della Nonna e dell’adolescenza … Concludo rimembrando (ed ora la posso ben capire), la lieve lacrima ben dissimulata (ma a me non sfuggita), apparsa sul volto di Riccardo, l’italiano trapiantato, lungo una tratta sul busito, all’ascolto di ‘Nicaragua, Nicaraguita’ nella partecipata versione di Carlos Mejia Godoy.Cosa altro potrei aggiungere se non: “Nicaragua, pura vida!” …

IL MITOA qualche giorno di distanza dal viaggio, passando in rassegna tutte le bellezze dispensate, in grado di infondere la sensazione di vivere in un mutevole miraggio, ancora mi imbatto in quella sottile inquietudine che lo ha quasi completamente permeato. Da dove proveniva, cosa la generava? ... Lo spaesamento si acuì in un pomerig-gio a Granada, quando dopo la visita al Convento San Francisco avevo deciso, abbandonando il gruppo, di rientrare in hotel. Percorrendo la Calzada per oltre un chilometro verso il lago, sotto il sole rovente, procurai di riparare per qualche minuto al fresco, entrando nella chiesa di Guadalupe che si ergeva severa, ma invitante nella canicola, sulla sinistra. Una funzione era in corso ed i fedeli si concentravano sulla navata in fondo sulla destra rispetto all’altare. Sedendomi dalla parte opposta, mentre godevo della frescura dovuta all’ampia ventilazione naturale dell’ambiente (tutti i portali erano aperti), presi a guardare con attenzione la gente, di sguancio. Il popolo centro-americano nutre un grande fervore religioso e, di fatto, era così: concentrazione e mistico silenzio regnavano si sovrani ma, qualche attimo dopo, fui colto dall’impressione che ci fosse qualco-sa di più, qualcosa che andasse oltre la ritualità programmata, qualcosa di inesprimibile che affondava le sue radici in una religiosità pagana, arcaica, in una parola precristiana. Non so come, mi sovvenne in quel momento un romanzo (tra i più intensi), letto anni prima: ‘The Plumed Serpent’ di Lawrence (quello di Lady Chatterley); vi si narra la storia di Kate, quarantenne irlandese che, giunta in Messico, gradualmente, al prezzo di un dolente e lacerante percorso interiore giunge, subendo l’influenza di due complesse figure maschili, a realizzare una liberazione profonda da ogni condizionamento dell’io individuale, l’annullamento stesso della propria personalità, la rinuncia definitiva al ritorno nel suo universo anglosassone; tutto ciò in cambio di una rinascita dell’interiorità che la sospinge verso il mito della solidarietà e che si estrinseca nella resa completa, per il tramite dei due uomini, al culto di Quetzal-coatl (1), il serpente piumato, divinità azteca, simbolo dell’anelito insopprimibile del popolo verso la libertà … In Guatemala, come in Nicaragua e in tutto il Centro – America, Messico compreso, il quetzal è un uccello dal piumaggio multicolore, simbolo della libertà, perché un’antica leggenda vuole che difficilmente riesca a sopravvivere dopo la cattura. La gente di questi luoghi è affabile, cordiale, ‘caliente’ si direbbe, a maggior ragione in un periodo di stabilità come questo, garantito dal ritorno al potere di Ortega e del FSLN (in una situazione peraltro intricata); ma guardan-do negli occhi le persone, vi vedevo una luce torbida, straniante, che scavava un solco profondo tra ‘loro’ e noi, lacerati dagli inganni di un individualismo esa-sperato, che ha contaminato in

modo irreversibile la civiltà.Come qualcuno diceva, forse si inizia ad intuire qualcosa del Centro America, soltanto quando ci si arrende all’evidenza di non poterlo mai capire (ricordate ‘Passaggio in India’?) … Forse, ora, qualcosa a fatica, va affacciandosi nella mente; con la sua natura vibrante, con il respiro profondo della terra, trasmesso dai suoi vulcani, con le foreste rigogliose ed alcuni mistici mo-menti (come al Garden Cafè), il Nicaragua aveva compensato lo smarrimento più volte provato, regalandomi non il quetzal (che non ho incrociato), ma forse l’ombra di un dio ..., l’ala invisibile di Quetzalcoatl …Ma non prendetemi troppo sul serio, si tratta, naturalmente, solo di autosuggestione … , forse …

Nota (1) In lingua Nahuatl (azteca), il nome Que-tzalcoatl definisce una ‘crasi’, fra i termini coatl: serpente e quetzal: uccello splendente, dal ché: serpente piumato.Nelle mitologie mesoamericane con il gemello Xolotl (personificazione demoniaca di Venere, la stella della sera), in quanto stella del mattino scompariva per poi ricomparire nel cielo dopo aver soggiornato nel mondo dei morti. In linea tassonomica, secondo l’accezione binomiale di Linneo il termine Quetzalcoatlus definisce un genere (due specie), di rettile volante del Mesozoico; con lo Pteranodon la più grande creatura alata che abbia mai solcato i cieli del pianeta.

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11 San juan del sur , baia, tramonto sull’oceano pacifico12 Granada, vulcano mombacho, la discesa alla base